di Luigi Ferdani

(Coro Lunigiana)

 

E’ capitato. Inutile cercare di capire dove, come e quando. Era il 7 Febbraio, una domenica, e sono arrivati i primi segnali.

Le telefonate col medico, l’inutile acquisto di antibiotici nella speranza non fosse “quello”. Poi il martedì sera il tampone e giovedì la sentenza: siamo positivi tutti tre, Svitlana, mia moglie, Masha, mia figlia ed io.

I primi giorni passano senza grossi problemi, anzi, mia moglie, che aveva avuto un po’ di febbre, migliora e mia figlia non ha disturbi se non una menomazione dell’olfatto. Io invece peggioro.

I dottori dell’USCA ci seguono con attenzione e vigilano sulle mie condizioni. “Mi raccomando, se ha problemi respiratori, non indugi, chiami subito il 118”, mi dice il dottore che mi ha seguito maggiormente.

E la domenica 21 Febbraio, al risveglio i problemi si presentano.

Voglio chiamare il 118, ma il solito medico è già sotto la finestra di casa e chiede a mia moglie come mi sento.

Sale in casa, esegue immediatamente un “emogas” (prelievo di sangue arterioso dal polso) e, rilevato che il mio livello di saturazione è basso, chiama il 118.

Mia moglie mi prepara in fretta una borsa con poche cose, chiede preoccupata al dottore: “e adesso cosa succede ?”. Il dottore cerca di rassicurarla, quindi mi salutano e, con l’angoscia che posso solo immaginare, vedono che mi caricano sull’ambulanza. E quello è stato il primo terribile momento perché troppe volte abbiamo sentito che, per molti, quello è stato anche l’ultimo saluto con la famiglia.

In ambulanza mi viene somministrato l’ossigeno che non lascerò più sino al 19/03/21.

La corsa verso il NOA, l’arrivo alle 11,10 circa, l’ingresso al Pronto Soccorso dove rimarrò sino alle 22 circa, quando, eseguiti alcuni accertamenti, come un nuovo tampone, prelievi sanguigni e TAC, vengo trasferito in medicina COVID, reparto infettivi (sub intensiva).

La prima notte dormo solo in un’area abbastanza isolata. La mattina dopo vengo spostato all’interno del reparto vero e proprio dove, mi dicono, hanno tutte le attrezzature necessarie.

Ancora esami, analisi del sangue, venoso e arterioso e un dottore, Macaro Corrado, un giovane con accento meridionale, mi dice che ho una brutta polmonite.

Nel primo pomeriggio sento mia moglie che intanto aveva parlato col Dott. Macaro. Il dottore le ha detto che, viste le ultime analisi fatte,nonostante la gravità del caso, riesce a vedere la luce in fondo al tunnel. Comincio a sperare.

Nel reparto è in via vai continuo di medici, infermieri, personale sanitario assolutamente irriconoscibili chiusi nelle loro tute, con le mascherine ed il plexiglass davanti al viso.

Nella camera non sono più solo. Il mio primo compagno di sventura è un signore sulla sessantina. Lui stà abbastanza bene anche se è già la terza volta che viene ricoverato, comunque, ad ogni buon conto, tutte le sere alle 18,00 segue il rosario della Madonna di Fatima e la successiva messa. Non ho niente in contrario, tutto sommato aiuta a sperare.

La mattina dopo una dottoressa si avvicina a me tenendo in mano una maschera con attaccato un grosso tubo corrugato. “Deve indossare questa” mi dice. La maschera, che mi lascerà una piccola ferita sul naso, viene stretta fortemente dietro la testa e preclude ogni ingresso d’aria se non attraverso quel tubo collegato ad un ventilatore. La provo. Forse la maschera non è regolata bene, forse non funziona bene, ma mi sento soffocare, l’ossigeno, sia in entrata che in uscita, a volte si blocca; non resisto e faccio segno di toglierla. La dottoressa abbandona “non ce la fa” dice. Viene allora un’altra persona, forse é un medico, forse un infermiere che, con la stessa maschera in mano, mi dice senza mezzi termini: “se non metti questa maschera, noi domattina ti troviamo secco, oppure finisci di sotto in terapia intensiva”. L’argomento è convincente. Ci riproviamo. Forse lui ha saputo regolare meglio il flusso di ossigeno, fatto stà che posso respirare; è un respirare compresso, sforzato, innaturale, ma regolare e riesco a sopportare la maschera. La terrò per otto giorni consecutivi e per un tempo variabile dalle 12 alle 14 ore al giorno: due o tre al mattino, due o tre al pomeriggio, poi per tutta la notte.

Naturalmente è il dottore che stabilisce in linea teorica il tempo per il quale devo rimanere attaccato al ventilatore dell’ossigeno, però, in pratica, sono poi gli infermieri che decidono di lasciartela un’ora o due in più. Dopo una di quelle sedute prolungate, all’infermiera che, liberandomi dalla maschera, mi diceva: “te la levo, oggi l’hai tenuta anche troppo”, io risposi: “non l’hai certo fatto per farmi dispetto”. Non posso dimenticare il sorriso di lei che filtrava attraverso la sua protezione in plexiglass

Una sera, guardando la televisione, il TG regionale della Toscana passa un servizio particolare, inatteso. E’ un servizio che riguarda i Cori della Toscana. Mi faccio più attento e all’improvviso compare il volto di Moreno Signorini. E’ un “basso” del Coro Lunigiana ed è Presidente dell’Associazione Cori della Toscana. Quando vedo Moreno mi prende il groppo alla gola. Dopo Moreno ecco il carissimo amico Luigi Ferrari, che in quei giorni è stato molto vicino alla mia famiglia, interessandosi quotidianamente delle mie condizioni, fornendo un aiuto prezioso a mia moglie nei contatti con l’ospedale e dando alla mia famiglia tutto il suo sostegno morale. Luigi è il presidente del Coro Lunigiana. Quando vedo lui il groppo alla gola si stringe sempre di più. Alla fine del servizio, c’è una breve carrellata sulle giacche blu del Coro Lunigiana, e piango.

Il giorno dopo, mentre il mio coinquilino lascia il NOA per una struttura più leggera, mi spostano in una’altra camera. Lì, una sera, sopra una mascherina e dietro il plexiglass due occhi mi guardano: “Scusa, ma tu di dove sei ?”. “Sono di Licciana Nardi” è la mia risposta. “Ma si, ti avevo riconosciuto. Sono quella che abita vicino all’ufficio dove lavoravi”, e ricorda le volte che esaudivo le sue richieste di tagliare l’erba alta nell’area tra l’Ufficio Tecnico e la sua abitazione.

Si chiama Erica. Il giorno dopo prenderà contatto con mia moglie; è stata gentilissima e preziosissima in quei frangenti.

I contatti con Svitlana e Masha avvengono tre quattro volte al giorno. Svitlana mi trasmette i saluti e gli auguri di molti amici, mi informa dei suoi contatti con il Dott. Macaro, mi incoraggia: “Guarisci”, mi dice, “torna a casa presto”, e Masha vicino a lei che ripete: “Bufu, torna a casa”. Sento nelle loro voci tutta l’angoscia e la speranza del momento.

Mi spostano ancora di camera e mi trovo con un certo Sig. Giuseppe, che ha due figli, il maschio ha una pizzeria in Massa. La femmina è infermiera in chirurgia al NOA. Ha ottanta anni e li porta molto bene. Anche a lui viene applicato il ventilatore dell’ossigeno al quale si attaccherà con la caparbia volontà di chi vuole ancora vivere.

Il Dott. Macaro passa a vedermi ogni giorno e le sue visite sono confortanti perché mi dice che la situazione è stabile con piccoli graduali miglioramenti. “Tra qualche giorno diminuiremo le ore per cui dovrà portare la maschera, un poco alla volta in base ai risultati delle sue analisi” (vedi emogas).

Infatti due giorni dopo di mattino non mi attaccano più al respiratore, poi neppure il pomeriggio. Lo sarò solo la notte.

Dopo l’insopportabile maschera del ventilatore il Dott. Macaro, valutate nuovamente le mia condizioni, decide di usare un altro apparecchio. Si tratta di una macchina che attraverso i due usuali sondini inseriti nelle narici, soffia nel naso ossigeno caldo e umido a trentasette gradi, devo tenerla per tutta la notte.

Arrivano in quattro per mettere in funzione il nuovo strumento. Sono in difficoltà, armeggiano, non sanno bene cosa fare. A quel punto un infermiere, giovane, robusto, un po’ naif ma molto “massese”, allontanando da se l’attrezzo, sbotta “ma sempr stà roba nova; mò stà nota st’ chi i mora..”. Un’infermiera lo fa tacere: “non devi dirlo a lui…”. Io abbozzo un sorriso di circostanza facendo scongiuri sotto coperta.

Comunque la nuova macchina mi viene applicata. E’ decisamente meglio della maschera; almeno posso respirare liberamente con la bocca.

Ancora un miglioramento e il Dott. Macaro mi comunica il trasferimento presso il Don Gnocchi di Fivizzano per le cure intermedie e la riabilitazione.

Il martedì successivo, 9 Marzo, dopo aver atteso quasi tutto il giorno, un’ambulanza di Fosdinovo mi trasferisce a Fivizzano dove arrivo alle ore 18,30.

Finalmente torno a vivere. Sento aria di casa.

L’ingresso al Don Gnocchi con l’acquisizione dei miei dati da parte del Dott. Barbieri, una cena frugale (con quello che era rimasto: latte-caffè e fette biscottate) e si passa al giorno seguente.

Dopo tre giorni passati da solo, trasferiscono nella mia camera un signore di Villafranca. E’ asintomatico. Restiamo insieme un paio di giorni, quindi, dopo un tampone negativo, viene mandato a casa.

Ma vengo spostato anch’io perché arriva sempre nuova gente. Il mio nuovo compagno di camera si chiama Luigi anche lui. E’ di Ortola di Massa. Ha ottanta anni, è un soggetto simpatico e molto molto loquace. Ormai so quasi tutto della sua vita. Suo figlio, che è maresciallo del carabinieri, comanda la stazione di Querceta.

Ci siamo promessi di ritrovarci una volta guariti per una abbondante spaghettata alle vongole rallegrata con un buon vino.

Ne ho veramente bisogno perché in tutta questa storia sono dimagrito di otto chili.

Finalmente l’ultimo tampone negativo.

Torno a casa dalle mie due meravigliose donne.

Questa, in breve, la mia storia con il COVID. Una storia che per me è finita in maniera fortunata, ma è una storia che lascia dei segni profondi, nel fisico e nell’anima. Non posso non pensare a tutti coloro che lottano contro la malattia: medici, infermieri, volontari, a tutto il personale sanitario, cui deve andare tutta la nostra gratitudine; a tutti coloro che hanno sofferto e ancora purtroppo soffrono e soffriranno.

Non posso non pensare a tutti quelli che ho lasciato nel letto a lottare nella speranza di sopravvivere, di tornare a casa.

E infine, questo mio ricordo, queste mie povere righe le dedico a Marco. Marco Belloni di Santo Stefano, che cantava a un metro da me e che questa infame malattia, all’età di soli cinquantacinque anni, ha strappato alla vita, all’effetto dei suoi cari e al sorriso degli amici.

Dal più profondo del cuore. Ciao.

Licciana Nardi. 31/03/2021