Come acutamente e correttamente qualcuno tra i nostri amici occitani di Monterosso Grana osservò – durante il giro di interventi individuali nel corso della cena congiunta in occasione della trasferta da noi, a Pisa – il coro è fondamentalmente una comunità che si stringe intorno ad una famiglia.
È questo uno dei modi – probabilmente il più efficace – per dare vita a un ensemble corale partendo dal nulla: così è avvenuto per Alma Pisarum Choir – quel 20 giugno 2016 da cui ormai sono quasi trascorsi i 10 anni che lo consacreranno “coro di tradizione” – con una piccola ma combattiva pattuglia di pionieri che abbracciò – quasi senza sapere di che si trattasse – la famiglia Niccolai condividendone speranze, coltivandone i sogni e dando il proprio straordinario contributo alla realizzazione di un suo progetto che oggi – lo possiamo dire – è maturato abbastanza da potersi considerare – nell’allegoria dell’evoluzione umana – un laborioso ed estroso adolescente, che studia e opera per divenire un giudizioso ma fecondo giovane, senza rinunciare né agli aspetti più ludici o ricreativi dell’esistenza, ma – ad un tempo – senza tradire la propria vocazione culturale.
Ed è proprio a quel gruppuscolo primordiale – di cui oggidì ancora rimangono diversi sodali, appassionati e partecipi come il primo giorno – che si devono i numeri di oggi, in quella loro capacità e pazienza di lasciare sedimentare la presenza di nuovi accoliti, e la mitezza o la comprensione nell’accoglierli; un’indulgenza non condivisa – per carità – da tutti quanti siano passati attraverso le maglie di questo gran bel percorso – arricchitosi via via del contributo disinteressato di chi lo ha sposato e fatto suo – perché anche l’edificio più bello che si possa costruire non è bello per chiunque, e non può dirsi un posto adatto per chicchessia.
C’è del resto chi non ha avuto la pazienza, chi non ha saputo aspettare; c’è chi è stato davvero e letteralmente fuori posto fin dal primo istante in cui ha varcato la soglia dell’ensemble; c’è chi ha incontrato asperità nel suo percorso all’interno del coro. E c’è infine chi è arrivato scontrandosi subito con qualche svista colossale, con qualche errore grossolano imprevisto, con qualche variabile impazzita, inducendolo a chiedersi istantaneamente in quale gabbia di matti si fosse imbattuto: ebbene, siamo umani e sbagliamo come tutti gli altri.
Ma d’altra parte un progetto ambiziosamente inclusivo procede – è inevitabile – da una dialettica fra tutti i suoi componenti: la disponibilità ad accettare l’errore non può essere solo e soltanto di chi stringe le sue redini fra le proprie mani, perché altrimenti tutto il meccanismo si trasforma in una vicenda dalle tinte cristologiche, in cui qualcuno accetta di portare sulle proprie spalle il peso dei «peccati» di tutti gli altri, mentre questi possono perseverare nell’errore perché qualcuno prima o poi li assolverà.
Ebbene no: fare squadra è essenzialmente accettazione della biodiversità culturale, tolleranza cioè in senso lato, quasi erasmiano, o in altre parole, scoperta e riscoperta dell’«alterità» di un «io» cioè al di fuori di sé, che al «sé» conferisce un senso compiuto e dunque, disponibilità ad accettare l’errore altrui e – tendenzialmente – anche le sue conseguenze; del resto l’individuo si scopre attraverso la sua relazione con gli altri, secondo una logica per cui senza una collettività esso non esiste in quanto tale, cioè cosciente di sé. È una delle ragioni per cui la psicanalisi e molta psicologia – purtroppo epistemologicamente fondate sull’individualismo, dunque di per sé incapaci di comprendere il rapporto fra l’individuo stesso e la società in quanto suo ganglio, suo nodo – comprendono l’importanza dello specchio (lo fanno ad esempio Sigmund Freud e Jacques Lacan) senza però sfiorare mai il motivo reale della sua centralità, ovvero il rapporto con un’«alterità», in questo caso specifico confondibile con l’«identità».
Sapere che l’«altro» ha due occhi e una bocca, innesca immediatamente la necessità di un confronto: «Anch’io ho due occhi? Anch’io ho una bocca?»; ed è questo il motivo per cui l’individuo avrebbe percezione ma non coscienza di sé laddove crescesse senza alcun altro contatto umano e/o esperienza sociale; qualche benpensante di scuola stirneriana, giusnaturalista e/o loro discendenti – principalmente anglosassoni, ma senza escludere nichilisti, decostruzionisti, esistenzialisti, etico-egoisti di altra estrazione – banalizzerebbe e ridurrebbe il ragionamento al semplice «fattore ambientale», con buona pace di Vygotskij e di chiunque consideri l’orizzonte culturale in cui un essere umano nasce, cresce e si evolve come decisivo per l’orientamento della propria esistenza.
Ma torniamo a noi, a questioni assai più terra terra: perché un coro – benché senz’altro crogiolo di saperi e competenze sia da un punto di vista storico, che antropologico, che sociologico, che letterario oltre che musicale, nonché quindi crocevia privilegiato di concezioni diverse e dunque terreno fertilissimo di confronto – è essenzialmente ciò di cui all’oggetto di questo articolo: una famiglia cui si aggregano amici che si fanno sempre più stretti, stratificando altri cantori fino a che un bel giorno i numeri non restituiscono ai convenuti la dimensione di una vera e propria tribù.
Sono forse gli irlandesi del Cór na dTreabh (pronunciato all’incirca Còr na Drav), cioè appunto Coro delle Tribù ad avere centrato – forse più e meglio – cosa sia o possa essere un coro: una tribù, una tribù che canta (o, come la definirebbe un buon amico che di Terzo Settore si intende davvero, una «comunità cantante»).
D’altra parte, non è forse vero che un coro – aldilà della sua quasi connaturata attitudine ad incontrarne altri, a tessere con essi relazioni stabili e a vivere con essi simbioticamente ogni incontro – incarna valori identitari forti, rappresenta una «territorialità» sentita e irrinunciabile, e costituisce un inviluppo comunitario impermeabile agli innesti «ideologici» dell’«alterità» poiché snaturerebbero la sua stessa essenza, negherebbero la sua tradizione, o – in altre parole – ne confuterebbero l’esistenza stessa in quanto tale?
Il repertorio di un coro ne costituisce l’ideologia, così come la sua suddivisione in sezioni, il suo metodo di essere e fare comunità, il suo modo di accogliere i nuovi accoliti, il suo rapporto fra formazione e performatività: fuori da questo schema, non esiste nient’altro, se non appunto un «altro coro» o più verosimilmente un «coro altro»; un’ideologia mitigata solo dall’idea di una coesistenza pacifica e solidale con l’«alterità» o, in altre parole, un’inclinazione «federale» alla coralità, un approccio solido e solidaristico che implica l’auto-riconoscimento del sé in virtù – prima di tutto – delle differenze con l’altro.
E non è forse questa l’essenza stessa della comunità tribale? Non è forse un coro l’equivalente della gens latina, unita intorno non alla sacralità del suo stregone, ma alla di lui famiglia, che si spertica per sostenerne autorità, reputazione e indirizzo? Non è il direttore di coro, l’indomito aruspice che – vaticinando la concertazione di una pièce – getta le condizioni perché ciò avvenga davvero? E non è lui il custode – insieme alla sua famiglia – fedele della tradizione, dell’ideologia del coro?
Verrebbe da scomodare l’etnomusicologo Alan Parkhurst Merriam a tal proposito ed i suoi studi – all’interno dell’opera The Antropology of the Music edito da Paperback nel 1964 – sui Basongye, popolazione bantù del distretto di Kabinda in Congo, o sugli indiani Flathead del nord-ovest dello stato del Montana negli USA: egli osserva essere «praticamente inconcepibile che possa esistere una canzone “sconosciuta” tra i Flathead, ma se esistesse, la maggior parte degli informatori è abbastanza sicura che potrebbe essere identificata in termini di categoria d’uso» e nonostante possano loro piacere «le canzoni da cowboy, non per il loro valore d’uso o perché sono canzoni da cowboy, ma perché apprezzano la musica», «la musica normalmente non è astratta dal suo contesto culturale» e «non sembra essere considerata come una cosa a parte, ma piuttosto […] concettualizzata solo come parte di un’entità molto più ampia».
Beh, per un corista di un coro liturgico il canone è composto da un certo messale e per un suo cantore ascoltare – e magari canticchiare – Shine you crazy diamond dei Pink Floyd nel tragitto da casa propria alla chiesa equivale a rompere il canon cantici né più e né meno come cantare un altro messale, così come per quello di un coro di tradizione catalana cantare una misa a sei voces di Tomás de Torrejón y Velasco o per una mondina un canto alpino: c’è una sacralità nel cantare il repertorio del proprio coro che trascende il piacere della musica, un vincolo quasi di sangue che rende ogni altra relazione con l’universo musicale non partecipe, non incarnata.
Ed è ecco che l’ideologia, il sistema di valori, l’orizzonte di senso di un coro ne fa letteralmente tribù nella quale cantare è all’interno di un certo recinto – quello cioè del canon cantici, cioè del suo repertorio – fuori dal quale farlo assume connotazioni totalmente diverse e fondate sul principio di irrelato, diviene cioè qualcosa che può essere piacevole o persino divertente ma non significativo, che può intrattenere ma non assumere una valenza rituale.
Ed eccoci dunque al centro della dissertazione presente, ovvero il cuore pulsante dell’antropologia culturale: il rito che celebra il mito, rinnovandone la memoria fondativa, rievocandone le origini e facendosi ponte immanente fra un passato che si attualizza, un presente che lo celebra ed un futuro che non lo dimentica: in altre parole, torniamo a La memoria culturale di Jan Assmann edito da Einaudi nel 1997.
Un coro traccia un vincolo profondo tra sé stesso come gruppo, il proprio mito fondativo, il canone su cui si fonda – in questo caso il repertorio che né è ad un tempo regula e ideologia – ed il rito, o, per meglio dire in tutte quelle componenti rituali che concorrono all’attualizzazione del mito, cioè ciò che è consuetudinario, come il giorno e l’orario di prova, il rapporto con certuni altri cori, quello con altre associazioni e/o istituzioni, la celebrazione di alcune date significative, etc.
Ecco dunque l’analogia più sensata proprio come disegno del processo evolutivo di un coro, dalla famiglia primordiale al clan allargato fino alla sua massima espansione, cioè la tribù, che è il punto di non ritorno, il momento che sancisce la solidificazione definitiva di quella nebulosa ideale fattasi in seguito liquido progettuale.
La musica unisce perché innanzitutto divide: crea senso di appartenenza ad un gruppo negando quella ad un altro, generando senso di identità e spirito di corpo; e questo appagamento, questa realizzazione nelle aspirazioni individuali – che si fondono in un’aspettativa comunitaria – rendono possibile il riconoscimento dell’«alterità», del canone «altro», dell’«altra coralità»: il «tutto che è molto di più delle parti di cui è composto» si rende immanente in questo modo, rendendole più disponibili verso gli altri «tutto» essendo e sentendosi parte del proprio.